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Durante l’ultimo video con Ivan Grieco, al termine di un dibattito secondo me costruttivo, professionale e rispettoso, l’amico e anziano d’Accademia generale Paolo Capitini per ribattere alle mie osservazioni sui problemi attuali dell’Armata Russa, mi ha rivolto la domanda fatidica: “Ma insomma: se i russi sono messi così male, come mai gli ucraini non hanno ancora vinto?”

Ricordo di aver già scritto un post per rispondere a questa domanda, ma mi rendo conto che occorre tornarci: non tanto per rispondere a Paolo, che è un professionista la cui domanda aveva ovviamente una valenza retorica nell’ambito di una discussione tecnica, quanto per affrontare i dubbi della maggioranza del pubblico, che invece a tale quesito da un valore nominale.

La domanda infatti, è del tutto comprensibile e ritengo se la pongano davvero in molti; merita pertanto una risposta chiara e articolata.

Il problema cognitivo della nostra società è che viviamo in un mondo sempre più digitalizzato dove siamo abituati a vederci rispondere sempre con numeri più o meno precisi e con espressioni nette che tendono a semplificarci questioni che in realtà semplici non sono affatto. Abbiamo perso l’abitudine di affrontare i problemi in modo analogico, e siamo sostanzialmente diventati un po’ manichei, nel senso che vogliamo sempre una risposta drastica: sì o no, bianco o nero.

L’Occidente continuerà a sostenere l’Ucraina? Sì o no?

La guerra finirà entro l’anno? Sì o no?

La Crimea verrà liberata? Sì o no?

La controffensiva avrà successo? Sì o no?

Sì? E allora perché sono ancora lì a neanche dieci chilometri dalle posizioni di partenza?

 

Purtroppo la risposta implica un disarmante “è complicato…”, e a quel punto di solito gli scettici cominciano a ridere.

Intendiamoci: lo scetticismo è salutare. Ma dovrebbe essere solo l’inizio del ragionamento, non la sua conclusione. È opportuno mettere in dubbio le fonti e verificarle, e altrettanto vale con le teorie costruite sui dati forniti da tali fonti. Ma il dubbio deve essere strumentale all’analisi, non fine a sé stesso come invece sembra essere per tanti che hanno fatto del dubbio a oltranza uno scudo dietro il quale ostentare saggezza da bar dello sport.

Cominciamo dall’inizio: cosa distingue un analista di intelligence da qualsiasi altro analista?

La costante rivalutazione delle fonti.

Un esempio di partenza sono le analisi economiche; sicuramente molti esperti del campo mi potranno correggere visto che esulo dal mio campo di esperienza, ma la questione della valutazione dello stato dell’economia russa da parte di agenzie estremamente qualificate trovo sia illuminante. Tali agenzie lavorano in maniera standard in base a procedure consolidate, basandosi su dati di partenza considerati attendibili: per avere una valenza statistica, bisogna che tali dati siano congrui, e quindi sempre estrapolati allo stesso modo a partire dalle stesse fonti. Nel caso specifico tali fonti sono quelle ufficiali russe.

Ora a me analista intelligence appare ovvio che nel momento in cui lo scopo dell’analisi è proprio verificare l’impatto delle sanzioni occidentali contro l’economia russa, i dati forniti ufficialmente dalla Russia stessa difficilmente saranno attendibili, indipendentemente dal fatto che lo siano stati in passato (prima della guerra); apparentemente però molti analisti economici hanno trascurato tale aspetto in quanto la potenziale aleatorietà del valore delle fonti abituali esulava dalle loro competenze. Il risultato è stato che per mesi (e in alcuni casi tuttora) ci siamo sentiti dire che i dati economici russi erano buoni e che quindi le sanzioni non funzionavano… Indipendentemente dal crollo del valore del rublo, degli introiti delle esportazioni di idrocarburi o dall’evidenza degli aerei bloccati a terra per mancanza di ricambistica.

 

L’analista militare parte da una sua propria consolidata esperienza professionale (se non ce l’ha, non fa l’analista), che gli fornisce le basi per stabilire una situazione di partenza da cui cominciare ad analizzare gli sviluppi di un conflitto: in sostanza si tratta di comprendere fino in fondo il potenziale militare dei contendenti e gli scopi che si ripropongono dal conflitto.

Il secondo passo è stabilire un metodo di confronto comparativo fra le forze contrapposte, che sia basato sui precedenti storici offerti dall’esperienza professionale precedente.

Il terzo passo è reperire le fonti… E qui l’analista che non è più in servizio si deve arrangiare impiegando Fonti Aperte (OSINT – Open Sources Intelligence) perché non ha più accesso alle fonti classificate.

Una volta reperite, le fonti vanno classificate: non solo in base alla credibilità, ma anche alla specializzazione. Ci sono fonti OSINT credibili per certi aspetti e non per altri; ci sono perfino quelle di parte avversa, la cui credibilità ovviamente è circostanziale. Ci sono quelle valide a livello strategico e non tattico, o viceversa. Quelle credibili relativamente alle forze “amiche” e non a quelle “nemiche” (di nuovo: l’analista militare non è quasi mai “imparziale”: è schierato con la “propria” parte, a cui normalmente è vincolato da un giuramento; l’obiettività della sua analisi è un aspetto professionale del tutto svincolato dall’imparzialità), e viceversa… Ci sono quelle che a volte ci prendono e a volte no. Insomma: ci vuole tempo e pazienza per valutarle e selezionarle in base all’utilizzo richiesto.

Classificate le fonti, occorre valutare le notizie che queste producono. Una fonte credibile può dare talvolta informazioni sbagliate e viceversa; quando accade, occorre riclassificare la fonte. Le notizie fornite poi, possono apparire più o meno credibili in base al quadro che si è già delineato: la classifica elevata di una fonte non basta a rendere credibile una notizia apparentemente fuori quadro. L’approfondimento porterà alla rivalutazione della fonte oppure al cambio del quadro, cose entrambe indigeste per l’analista ma che occorre di tanto in tanto fare.

Una volta delineato il quadro di situazione, l’analista può finalmente iniziare il suo vero lavoro: “leggere” la situazione del momento in maniera dinamica, proiettandone l’evoluzione futura in base agli schemi storici e/o dottrinali acquisiti in precedenza attraverso la sua esperienza professionale.

In sostanza, si creano “scenari” futuri, paragonabili alle ipotesi di studio sperimentale in ambito scientifico, e si cercano fra le notizie disponibili quegli indizi che possono confermare oppure negare ogni possibile scenario di interesse.

Per esempio: l’attaccante che sta puntando verso un fiume non guadabile, dispone o meno di materiale da ponte sufficiente ad attraversarlo? Se sì, siamo di fronte ad uno sforzo principale, altrimenti è solo uno sforzo secondario che si arresterà al fiume stesso.

Con il tempo, gli scenari plausibili si riducono drasticamente di numero e di solito se ne tengono tre di riferimento: il più favorevole, il più pericoloso e il più probabile (che di solito è la media degli altri due). Più i tre scenari tendono a collimare, più l’analista si avvicina alla possibilità di indicare con ragionevole approssimazione quanto probabilmente avverrà in futuro.

 

Per sommi capi, questo è il funzionamento dell’analisi militare svolta dall’esperto di intelligence.

Ora, per tornare al problema iniziale: come è possibile che l’esercito russo, che tanti analisti militari descrivono come in una situazione critica, possa ancora offrire una resistenza tanto arcigna?

In base all’analisi pregressa dei 18 mesi di guerra, è evidente che l’Armata Russa ha subito un degrado ormai irreparabile. L’esercito professionale che esisteva in origine, con una larga componente offensiva del suo vastissimo potenziale militare, in gran parte non esiste più ed è stata sostituita da potenziale addizionale proveniente dalla mobilitazione, quantitativamente superiore ma qualitativamente molto inferiore a quanto perduto finora.

Di contro l’esercito di leva ucraino ha effettuato la propria mobilitazione in modo da assorbire le perdite e contemporaneamente espandere il proprio potenziale militare senza decadere dal punto di vista qualitativo; al contrario, il crescente supporto occidentale ha portato ad una lenta ma costante crescita della sua qualità, elevandone quindi anche la componente offensiva.

Da qui il passaggio dell’iniziativa dai russi agli ucraini, dovuto all’ormai acquisita superiorità qualitativa dei secondi sui primi: superiorità ormai irreversibile, che quindi decreta l’impossibilità da parte russa di “vincere”.

Allo stesso tempo però la capacità ucraina di “vincere” è limitata dalla loro tuttora ridotta componente offensiva che deve incidere nel potenziale complessivo dei russi che – pur privo di qualità – è tuttora quantitativamente superiore.

Le capacità dei russi peraltro sono estremamente variabili in base alle componenti: il degrado subito dall’Armata infatti è sì catastrofico nel complesso, ma asimmetrico rispetto ai vari servizi a causa della natura dei combattimenti avvenuti finora. La fanteria e soprattutto i carristi hanno subito perdite superiori al 70% e sono state rimpiazzati da mobilitati privi delle necessarie competenze; ma gli artiglieri vengono raggiunti solo ora dalla controbatteria e le loro perdite sono molto minori, per cui il fuoco è ancora professionale laddove la manovra non lo è più. Lo stesso vale per il genio e la guerra elettronica, dove le perdite del personale professionista originario sono state minime: la loro efficacia sul campo pertanto è inalterata, e si vede.

 

Insomma: l’esercito russo è degradato oltre la possibilità di un recupero in tempi brevi; ma le sue capacità residuali sono ancora tali da presentare un solido ostacolo per le ancor limitate capacità offensive di quello ucraino.

Di qui, la lentezza nel progresso di una controffensiva che non ha precedenti nella storia per caratteristiche tecniche e tattiche.

Spero di essermi spiegato in maniera comprensibile…

 

 

Orio Giorgio Stirpe