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La situazione militare in Ucraina è tutt’altro che stabilizzata.
Nel nord prosegue lo sfruttamento ucraino del successo e i russi non hanno ancora ristabilito il contatto se non nelle zone intorno a Severodonetsk, che rischia l’aggiramento da nord. Nel sud è ancora in atto il pesante fissaggio intorno a Kherson, che inchioda sulla sponda occidentale del Dnipro alcune fra le Unità più efficienti dell’esercito russo impedendo loro tanto di ripiegare quanto di rifornirsi. Nel Donbass la situazione si mantiene invariata, ma fra Donetsk e Zaprizhizhia non si capisce più cosa stia succedendo, fra voci di contrattacchi russi, insurrezioni partigiane e voci di nuove offensive ucraine.

Abbiamo visto che mentre gli ucraini sono limitati dalla scarsità di forze e dalle difficoltà logistiche di supportare una spinta troppo rapida, i russi sono drammaticamente a corto di opzioni militari.
La rabbiosa reazione di Putin sembra confermare il suo desiderio di escalation, ma le possibilità di perseguire tale disegno appaiono penosamente scarse. Bombardamenti terroristici ad ampio raggio, minacce nucleari e mobilitazioni generali sembrano tutte ipotesi poco praticabili o addirittura illusorie, mentre l’esercito regolare semplicemente non ha più i numeri o le capacità di riprendere l’iniziativa. Nella migliore delle ipotesi i russi riusciranno a stabilizzare un fronte difensivo dopo aver abbandonato larga parte dei territori occupati, ma anche così potrebbero solo prepararsi per una lunga resistenza priva di reali prospettive.
La conferma di questo viene dal fatto che tanto gli oligarchi che i militari stanno dismettendo gli affari e vendendo le proprietà in Crimea; i militari stanno anche facendo evacuare le famiglie e svendono le abitazioni private.

Quando un esercito fallisce l’offensiva iniziale e perde l’iniziativa arroccandosi in difesa, può recuperare tale iniziativa solo in due modi: ricevendo sostanziali rinforzi di truppe fresche, oppure in seguito all’intervento di un alleato.
A parte le fantasie dei minions su una Russia che “non avrebbe ancora impegnato le sue forze migliori”, l’esercito russo ha dato fondo alle sue capacità; non riesce a raccogliere nuovi soldati, e anche se ci riuscisse non avrebbe l’equipaggiamento pesante per consentire loro di combattere una guerra ad alta intensità. Una mobilitazione generale impiegherebbe almeno sei mesi a dare qualche risultato, e comunque creerebbe più problemi di quanti ne potrebbe risolvere. Ma soprattutto, la Russia non ha alleati che potrebbero intervenire, e nemmeno amici che potrebbero almeno fornire un aiuto indiretto.
La Russia ha solo complici, che fiutata l’aria si stanno non solo tirando indietro, ma si preparano a spartirsi le spoglie dell’orso.

Il primo fra questi è Erdogan: ha finalmente tratto le sue conclusioni dopo la battaglia di Izyum, e in vista dell’inevitabile sconfitta militare del suo sodale Putin ha rinunciato alla parte del Grande Mediatore per passare all’incasso dando via libera ai suoi alleati Azeri in Armenia: spera così di migliorare le sue prospettive fra i nazionalisti turchi in vista delle prossime elezioni. Dopo l’Armenia sarà la volta della Siria, dove il regime di Assad ha davvero i mesi contati.
Il secondo è l’Iran: non rischierà uno scontro con la Turchia, e dovrà abbandonare i suoi alleati armeni al loro destino, preparandosi ad un nuovo round di negoziati con l’odiato Occidente, approfittando di come questo sia impegnato in Ucraina, e cercherà di spremere il miglior accordo possibile sfruttando la congiuntura diplomatica favorevole.
Il terzo è la Cina: dimostrarsi deboli militarmente è il modo migliore di perdere il rispetto del Dragone, che nella Russia di Putin ha sempre visto un utile guardaspalle a contratto da impiegare nel confronto con l’America. Ma un guardaspalle militarmente screditato non serve a niente e non vale certo uno scontro strategico con l’intero Occidente…
Rimane la Corea del Nord… Per ora.

Come è stato possibile che il “secondo esercito del mondo” si riducesse così?
Non è tanto il risultato dell’ultima battaglia: questa ha solo reso evidente una situazione già deteriorata all’inizio dell’estate. Da tempo insistiamo che le gravissime perdite subite nell’insensata offensiva frontale nel Donbass ha compromesso le capacità operative dell’esercito russo, che appariva ancora capace di offensive solo grazie alla sua potenza di fuoco d’artiglieria contro posizioni fisse.
Le Unità schierate lungo tutto il fronte sono state erose e svuotate dalla necessità di fornire carne da cannone per l’offensiva di Putin, e alla fine sono rimaste letteralmente “vuote”. Una volta aggredite, si sfasciano.

La debolezza intrinseca dell’esercito russo è frutto di una riforma mancata e di una contraddizione dottrinale.
La riforma mancata è quella di Gerasimov, che ha cercato di portare a termine una riforma in senso occidentale dell’esercito già timidamente iniziata sotto Eltsin: si trattava di rinunciare ai fasti dello sterminato esercito prima zarista e poi sovietico, basato sulle masse operaie e contadine richiamate per una leva triennale che stremava l’economia di una Russia ridimensionata nel territorio e anche nella popolazione, istituendo un moderno esercito professionale basato su soldati a contratto. Questo implicava sciogliere Armate e Divisioni e passare a Corpo d’Armata e Brigate, più snelli e agili.
Ma un esercito così diventava un esercito da “potenza regionale”, fatto per proiettare potenza all’estero se e quando necessario, e non era più un esercito “imperiale”. La riforma ha incontrato resistenze insormontabili, e alla fine Shoygu ha trovato un compromesso su ordine di Putin, mediando fra i modernisti e i conservatori. Il risultato è una via di mezzo: un esercito per due terzi “a contratto” e un terzo di leva, con una riserva solo teorica e una miriade di Unità di tipo differente, con equipaggiamenti difformi e livello di addestramento variabile da buono a molto scarso.

La contraddizione dottrinale deriva dal fatto che se da una parte la cosiddetta “Dottrina Gerasimov” (che non è realmente tale ma viene così chiamata per semplicità) è un raffinato insieme di procedure offensive dell’intero Sistema-Russia, dall’altro le procedure tecnico-tattiche dell’esercito sono rimaste quelle sovietiche, che a loro volta erano disegnate per un massiccio esercito di leva con riserve umane e materiali molto vaste che non esistevano più.

Una dottrina essenzialmente offensiva disegnata per un grande esercito di leva applicata ad un ridotto esercito semi-professionale significa che la manovra dipende dal mantenimento dell’iniziativa e dalla superiorità tecnologica. Entrambi questi fattori si concretizzavano alla fine nella grande superiorità di fuoco dell’artiglieria, che a sua volta risulta efficace soprattutto nelle operazioni offensive contro un nemico in posizioni fisse.
Questo stesso esercito, costretto a una guerra di manovra contro un nemico veloce e numericamente non inferiore, va in difficoltà. Se poi questo esercito ha subito perdite non rimpiazzabili (sostituire un professionista richiede due anni, un militare di leva solo sei mesi), diventa anche debole.
Ma se questo esercito “ibrido” (né professionale né di leva, né moderno né massiccio) oltre ad essere indebolito dalle perdite, perde anche l’iniziativa ed è costretto in difesa, la sua stessa rigidità gli impedisce di manovrare mentre la sua debolezza non gli consente neppure di irrigidirsi.
Il risultato è una fragilità che conduce alla rotta se agganciato, oppure ad un rapido ripiegamento se riesce ad evitare il contatto.

Avevamo già visto questa reazione dopo la battaglia di Kyiv: piuttosto che passare in difensiva tenendo i territori occupati, i russi hanno preferito ritirarsi del tutto.
L’esercito russo così come è organizzato può solo attaccare, ma non si sa veramente difendere.
Ma se è troppo indebolito, non riesce nemmeno ad attaccare. Quindi se è aggredito, preferisce ripiegare.
Se non riesce nemmeno a ripiegare, si spezza.
Questo è lo stato del giocattolo preferito dell’orso Vladimiro…

Orio Giorgio Stirpe