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Ieri ho esposto le mie perplessità nei confronti di quella che vedo come una difformità da parte della maggioranza dei commentatori nell’affrontare notizie e prese di posizione a seconda che provengano da Mosca o da Kyiv: in sostanza sembra che Putin goda di una sorta di “rendita di posizione” da “cattivo” nei confronti di Zelensky, che a differenza di lui sembra condannato a doversi comportare in maniera politicamente corretta anche se si trova a guidare un Paese invaso e in guerra.

Oggi vorrei andare più nel dettaglio andando a esaminare le rispettive rigidità nei confronti di un approccio negoziale e le reazioni che tali rigidità sembrano suscitare nell’opinione pubblica.

 

Ieri Peskov ha ribadito che “la Russia intende raggiungere tutti i suoi obiettivi, e li raggiungerà”. Ora, DmitriPeskov non è uno qualunque nel Regime russo: è il portavoce ufficiale del Presidente, quindi se parla lui è come se parlasse Putin. In sostanza l’orso ha ribadito che intende annettersi tutti i territori indicati, de-nazificare l’Ucraina cambiandone il Governo e ri-educandone la popolazione, e assicurarsi che non possa aderire al campo occidentale osservando invece la più stretta neutralità (sotto sorveglianza russa).

Tutto questo, indipendentemente dal tempo che occorrerà e dalle distruzioni che questo comporterà…

Recentemente, Zelensky ha praticamente fatto affermazioni speculari: l’Ucraina intende liberare tutti i territori occupati fino al confine internazionalmente riconosciuto, ottenere risarcimenti economici, giustizia internazionale per i crimini di guerra, e perseguire l’adesione tanto alla EU che alla NATO.

Due posizioni chiare, completamente antitetiche e del tutto inconciliabili che lasciano ben poco spazio per una mediazione che infatti nessuno intende tentare proprio per evitare di “bruciarsi”.

Eppure la reazione dei commentatori a tali affermazioni, tanto mainstream che social, è completamente diversa.

 

Quando Zelensky esprime una netta chiusura a trattare con i russi, ci si stracciano le vesti. L’Ucraina si dimostra “irragionevole”, il suo presidente “si è montato la testa”, e l’Occidente dovrebbe “fare pressioni” per “costringere” Kyiv a trattare dimostrandosi flessibile, perché ovviamente quando si tratta “occorre essere disposti a rinunciare a qualcosa”.

Quando invece è la Russia ad esprimere rigidità – e anche una notevole mancanza di realismo vista la situazione militare sul campo – nessuno dice niente: la dichiarazione di Peskov è passata praticamente inosservata.

Perché questa differenza?

 

Sinceramente non credo ci sia una sorta di “congiura” internazionale volta a provocare una diversa reazione allo stesso comportamento da parte delle due parti contrapposte. Penso piuttosto che questa discrepanza che a me appare stridente e che invece passa sotto silenzio da parte dei media sia in realtà frutto dell’evoluzione psicologica occidentale: la stessa per intenderci che porta al fenomeno che ho descritto con l’analogia del bullo e della sua vittima, con il passante che suggerisce a quest’ultima di non reagire per evitare di scatenare ulteriormente la violenzadell’aggressore.

In sostanza, io credo che l’opinione pubblica ormai sia in realtà schierata contro Putin: l’orso Vladimiro è irrimediabilmente marchiato con la stigma del “cattivo”, mentre l’Ucraina è riconosciuta dalla maggioranza degli europei come “una di noi”… E che quindi dovrebbe comportarsi “come noi”.

 

Non siamo quindi veramente davanti al rifiuto di sostenere un Nazione europea aggredita da una dittatura (anche se la guerra ibrida di Mosca cerca di sfruttare i nostri meccanismi sociali a proprio vantaggio): siamo di fronte ad una nostra contraddizione interna che stiamo proiettando su un nostro vicino in difficoltà che percepiamo vicino a noi.

Per certi versi questo mi rasserena: non c’è un eccesso di “neutralismo” nel continuo apparente sforzo di mettere la Russia nella luce migliore e l’Ucraina in quella peggiore possibile di fronte ad una situazione in cui è fin troppo evidente chi sia il “buono” e chi il “cattivo”. C’è invece una nuova forma di espressione dello stesso complesso di colpa europeo che ha portato recentemente a revisionare la storia in senso peggiorativo per tutto ciò che riguarda le parti e i personaggi che siamo abituati a considerare “nostri”.

Giulio Cesare e i romani sono quindi diventati degli schiavisti e dei genocidi alla pari con Cristoforo Colombo, mentre i barbari e i nativi sono diventati vittime bisognose di giustizia; il processo risorgimentale italiano che abbiamo studiato a scuola come un episodio di cui andare fieri viene sminuito e vilificato fino a trasformarsi in una sordida congiura massone e inglese ai danni di monarchi benevoli ed illuminati, l’Austria-Ungheria sconfitta nella Prima Guerra mondiale si sta lentamente trasformando in un reame tollerante ed inclusivo da noi ingiustamente aggredito e distrutto in nome di ideali “fascisti”, e perfino gli alleati occidentali durante la Seconda sarebbero stati in qualche modo corresponsabili del nazismo e i metodi da loro usati per sconfiggerlo li metterebbero sullo stesso piano di chi ha generato l’Olocausto… Olocausto che poi qualcuno vorrebbe anche poter negare, in nome della libertà di pensiero.

 

Secondo questo modo di pensare, distinguere nella storia fra “buoni” e “cattivi” non sarebbe solo semplicistico, ma addirittura infantile e ridicolo: non basterebbe più fare dei distinguo, ma occorrerebbe ribaltare completamente i giudizi consolidati rimettendo tutto in discussione in maniera asettica partendo dal principio che TUTTI hanno torti e ragioni in misura equivalente. E nel dubbio occorre sempre dimostrare buona volontà accettando da parte nostra di essere stati ed essere tuttora sempre dalla parte del torto in quanto comunità. Salvo naturalmente essere sempre dalla parte dei “giusti” in quanto individui, proprio in quanto ci si pone immancabilmente in opposizione rispetto alla comunità cui apparteniamo.

 

Una sorta di comportamento collettivo masochistico volto ad assolverci in quanto individui dalle responsabilità della società a cui apparteniamo ma che preferiamo criticare per non doverla supportare.

Un modo di pensare che ci porta, nell’assistere al famoso atto di bullismo, a chiamarci fuori: invece di farci parte attiva per la soluzione del problema e affrontare personalmente il bullo per difendere la vittima, preferiamo dare la colpa alla società che non fa “qualcosa” di tempestivo e di efficace; ma se la facesse, saremmo lì per criticarla. Il ruolo che ci appare più congeniale è sempre quello di giudice, che ci appare (incongruamente) scevro di responsabilità e ci lascia appunto liberi dall’obbligo di prendere posizione.

 

Dalla posizione di “giudice” appare possibile e addirittura saggio ripartire equamente le responsabilità fra bullo e vittima e in questo modo auto-assolversi per la propria passività.

La colpa di ciò che avviene può invece essere comodamente scaricata sulla “società” da cui ci si picca di essere dissidenti, e il gioco è fatto.

Nessuna responsabilità, e la soddisfazione di essere nel giusto.

Soprattutto, nessun rischio di dover affrontare una sgradevole violenza fisica.

La viltà elevata a virtù.

 

Orio Giorgio Stirpe