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Nei post precedenti ho cercato di spiegare perché secondo me sul terreno la situazione ormai non si sta evolvendo in maniera significativa ormai da tempo, e anche perché invece la percezione per l’opinione pubblica continua ad essere quella di un’inesorabile avanzata russa.


Oggi vorrei provare a spiegare in maniera comprensibile il PERCHE’ i ridotti movimenti sul campo cui assistiamo abbiano una scarsa valenza militare a dispetto del numero innegabilmente alto di vittime che determinano.

In generale, quando un Comandante traccia un piano operativo per conseguire un obbiettivo assegnatogli dal livello superiore (normalmente il proprio Governo), a seconda dell’obbiettivo stesso e della situazione del terreno e dell’avversario decide di orientare la sua manovra in una maniera oppure in un’altra: verso il terreno, oppure verso il nemico. Questa scelta nel passato era più che altro istintiva, ma oggi è indicata chiaramente dalla dottrina militare, e nessuno è mai riuscito a sviluppare una terza alternativa valida o intermedia; ogni tentativo di eludere questa scelta binaria di solito si conclude con un fallimento.
Orientare la manovra al terreno significa cercare di acquisire determinati elementi topografici il cui controllo garantisce quello dell’obiettivo assegnato e impedisce al nemico di difenderlo. Di contro orientarla al nemico significa neutralizzare in primo luogo la capacità dell’avversario di difendere il nostro obiettivo in modo da poterlo acquisire in sicurezza.
Nel primo caso, se tutto va bene si limitano i morti e si cerca di costringere il nemico alla resa per impotenza, ma si rischia di causare grossi danni infrastrutturali; nel secondo caso si tende a ridurre i danni collaterali, ma tendono a crescere le perdite fra i soldati di entrambe le parti.
In sostanza non esiste una soluzione migliore dell’altra: la scelta dipende dalla situazione contingente e dalla missione assegnata. Il punto è che, fatta la scelta, occorre mantenerla.
Tanto per fare un esempio, durante la I Guerra del Golfo, il generale Schwarzkopf scelse di orientare la manovra al nemico, e l’obiettivo militare era la Guardia Repubblicana irakena: l’assunto era che, incapacitata quella, il Kuwait sarebbe stato liberato senza subire troppi danni. Durante la II Guerra del Golfo fu il contrario: gli alleati occuparono in rapida successione tutte le località strategiche e le forze irakene, già minate dalla sedizione, si dissolsero da sole una dopo l’altra senza dover essere distrutte sul campo. Gli esempi potrebbero essere infiniti: in Corea si puntava al terreno, in Vietnam al nemico.
Quel che è importante capire è che quando si attacca una collina, non è tanto perché si trova lì, ma in quanto la sua conquista implica il controllo della strada alle sue spalle, che a sua volta consente – per esempio – di tagliare i rifornimenti avversari. Mentre se si attacca un particolare schieramento di artiglieria nemica è perché questo è posizionato in modo da fornire un supporto fondamentale all’unità nemica che difende il nostro asse di attacco.

In base a quanto dichiarato da Putin all’inizio della campagna in Ucraina, e anche a quanto visto sul terreno nei primi due caotici mesi di guerra, si direbbe che i russi puntassero soprattutto al nemico: il tentativo di catturare Kyiv era chiaramente rivolto a rovesciare il Governo avversario nella convinzione che l’esercito si sarebbe sbandato, e in un secondo tempo si sarebbe provveduto ad eliminare i “gruppi nazionalisti e nazisti” residuali. L’assegnazione di forze di bassa qualità e alta percentuale di militari di leva al settore del Donbass indica chiaramente che la “liberazione” di tale territorio fosse considerata come secondaria nell’ambito della manovra militare, e si riteneva sarebbe avvenuta come conseguenza del successo nell’azione principale.
In seguito alla sconfitta nella battaglia per Kyiv l’intera pianificazione operativa è stata rimaneggiata in maniera apparentemente piuttosto affrettata. Il Donbass è diventato l’obiettivo fondamentale, e la manovra è stata orientata al terreno, indipendentemente dalle forze avversarie assegnate alla sua difesa. Di qui la scarsa enfasi sull’avvolgimento delle forze ucraine in testa al saliente e la caparbia pressione sugli obiettivi urbani assegnati.

Che la manovra russa sia attualmente orientata al terreno (la “liberazione del Donbass”) è stato ripetutamente confermato tanto da Putin in persona che dai suoi portavoce, ed è reso evidente dalla semplicità quasi geometrica delle operazioni tattiche nel settore: non c’è un intento specifico di distruggere le forze ucraine, ma solo di strappare loro uno dopo l’altro gli obiettivi urbani assegnati. Su questo direi sussistano pochi dubbi.
Ora però se torniamo a quanto descritto in precedenza, orientare la manovra al terreno significa “cercare di acquisire determinati elementi topografici il cui controllo garantisce quello dell’obiettivo assegnato e/o impedisce al nemico di difenderlo”. Il problema è che la conquista delle città del Donbass potrà anche rispondere all’obiettivo assegnato dall’Autorità politica moscovita, ma non inibirà in alcun modo la capacità ucraina di difendersi ed eventualmente di contrattaccare in seguito. Insomma, anche catturando tutte le città del Donbass, la capacità ucraina di continuare a combattere non sarà intaccata e Putin non sarà in alcun modo più vicino ad una soluzione negoziata favorevole, mentre la situazione militare non sarà affatto migliorata. Infatti l’attrito attuale nello scontro frontale è nella migliore delle ipotesi pari, ma più probabilmente è maggiore per l’attaccante, che fra l’altro in questo caso non dispone di riserve, a differenza del difensore che in seguito alla mobilitazione (e agli aiuti occidentali) ha una sostanziale disponibilità di rimpiazzi.
Quindi ammesso e non concesso che i russi riescano ad espugnare tutte le città rimaste nel Donbass compresa Kramatorsk (identificata già tre mesi fa come la chiave per una “vittoria nel Donbass”), non si sarebbe raggiunta la conclusione militare del conflitto: gli ucraini continuerebbero ad imporre ai russi un tasso di attrito insostenibile attraverso contrattacchi locali sostenuti dalla montante attività partigiana e dal supporto occidentale, e il controllo del Donbass rimarrebbe precario, obbligando la Russia ad uno stato di conflitto perenne che la sua economia non potrebbe mai sostenere.

Torniamo quindi a quanto scrivemmo all’inizio della battaglia nel Donbass, quella che avrebbe dovuto concludersi per il 9 Maggio: il controllo o meno di Kramatorsk avrebbe definito la vittoria o la sconfitta russa nella battaglia. Avevamo anche scritto che potenzialmente una vittoria russa avrebbe potuto consentire a Putin di accettare una “vittoria mutilata” e un avvio di trattative per portare all’annessione di Crimea e Donbass alla Russia e collocare definitivamente un’Ucraina mutilata in campo occidentale.
Ora però che il collasso completo dell’Ucraina appare almeno tanto improbabile di quello della Russia, anche un tale risultato non condurrebbe ad una pace, ma tutt’al più ad un consolidamento del fronte nello stile delle Fiandre nel 1916.
Se poi a questo aggiungiamo che l’eventualità della conquista russa di Kramatorsk appare a mio avviso alquanto remota, arriviamo a quanto affermato all’inizio del post: i limitati successi tattici russi nella regione di Severodonetsk non hanno avvicinato i russi al successo della Campagna, che appare più distante che mai.
Tutt’al più lo sganciamento ucraino da Lyshyansk – lungi dal rappresentare uno “sfondamento decisivo – offre ai russi l’opportunità di interrompere finalmente i loro assalti disperati e di consolidarsi sulle posizioni raggiunte, che apparentemente soddisfano i requisiti della propaganda, e quindi anche dell’orso Vladimiro.

Orio Giorgio Stirpe