Ultime notizie

«Ufficiale medico di battaglione alpino già distintosi per attaccamento al dovere e noncuranza del pericolo sul campo di battaglia, per oltre undici anni di prigionia fu, quale medico, apostolo della sua umanitaria missione e, quale ufficiale, fulgido esempio di fiero carattere, dirittura morale, dedizione alla Patria lontana ed al dovere di soldato.

Indifferente al sacrificio della propria vita, si prodigò instancabilmente nella cura dei colpiti da pericolose forme epidemiche fino a rimanere egli stesso gravemente contagiato.

Con mezzi di fortuna che non gli offrivano le più elementari misure precauzionali, non esitò ad affrontare il pericolo delle più gravi infezioni, pur di operare ed alleviare le sofferenze dei malati e dei feriti affidati alle sue cure.

Sottoposto, per la sua fede patriottica e per l’attaccamento al dovere, prima alle più allettanti lusinghe e, subito dopo, a sevizie, minacce e dure punizioni, non venne mai meno alla dignità ed alla nobiltà dei suoi sentimenti di sconfinato altruismo, altissimo amor di Patria, incorruttibile rettitudine, senso del dovere».[1]

Russia, 1942-1954.[2]

 

 

Numerosi gli eventi celebrativi organizzati in Treviso e sull’intero territorio nazionale, in occasione del 70° anniversario del rimpatrio,[3] dopo quasi 12 anni di atroce prigionia nell’URSS, dell’eroico Generale Medaglia d’Oro al Valor Militare Enrico Reginato, allora Sottotenente medico del glorioso Battaglione Sciatori “Monte Cervino”, un uomo che ha onorato l’Italia, le Forze Armate, gli Alpini, la professione medica.

Enrico Reginato nasce a Treviso il 5 febbraio 1913, da Giovanni e Ida Pietrobon. Si laurea negli anni ‘30 in medicina e chirurgia presso l’Università di Padova,[4] conseguendo, presso la stessa università, il 2 giugno 1940, la specializzazione in Dermosifilopatia. Dal 1938 al 1940 aveva esercitato la professione a Padova e Alessandria. È anche un grande alpinista ed appassionato di montagna. All’inizio della seconda Guerra Mondiale viene mobilitato e nel 1941 inviato sul fronte Greco-albanese quale Sottotenente medico nel 1° Reggimento Alpini. Trasferito in seguito, come volontario, al 4° Reggimento nel Battaglione Alpini Sciatori “Monte Cervino”, vera fucina di eroi, nel 1942 parte per il fronte Russo. Nell’aprile di quell’anno viene catturato dai Russi iniziando il lungo calvario della prigionia nei campi di concentramento sovietici che durò ben 12 anni. Prigionia descritta mirabilmente nel libro di memorie “Dodici anni di prigionia nell’URSS”.

È stato uno degli ultimi prigionieri dell’Armata Italiana in Russia liberati nel febbraio del 1954. Tornato in Patria, nel 1955 riprende la sua carriera di ufficiale medico presso l’Ospedale Militare di Padova e successivamente presso la Direzione Generale della Sanità Militare in Roma. Nel febbraio del 1963 è trasferito al Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri con l’incarico di Dirigente del Servizio Sanitario e quindi Capo dei Servizi Sanitari dell’Arma. Dal novembre 1970 è al Collegio medico legale di Roma e poi alla Scuola di Sanità Militare fino al collocamento in ausiliaria nel 1976. Il 16 aprile 1990, all’età di 77 anni, muore a Padova presso il Policlinico Militare,[5] assistito dalla moglie Imelda Tosato, sposata in Roma il 22 aprile 1964 e dai figli Giovanni, nato in Roma il 29 aprile 1964 e Eugenie, nata il Roma il 5 settembre 1967.

Nel brano a seguito tratto dal suo libro di Memorie viene illustrato il trattamento dei prigionieri catturati dall’Amata Rossa dopo in grande sfondamento del 17 dicembre 1942[6] delle difese tenute da Italiani ed alleati sul fiume Don:

«[…] Krinovaja è un grosso centro a est del Don: vi passa la ferrovia. Ai margini dell’abitato sorge un gruppo di fabbricati in muratura, circondati da reticolati: antiche scuderie. Dentro questo recinto sono ammassati i superstiti. In quel tragico luogo entrarono trentamila uomini di tutte le nazionalità. Solo tremila, dopo venticinque giorni, uscirono ancora vivi, e in questi pochi giorni il dolore toccò il vertice dell’inumano.

I prigionieri furono ammucchiati nelle varie stalle che erano gremite sino all’inverosimile, l’acre odore della cancrena ristagnava ovunque; la fame distruggeva i corpi, la dissenteria completava l’opera di disfacimento di esseri umani martoriati da fame e sete e da parassiti che brulicavano nelle barbe incolte, sotto le vesti sudice e lacere.

Un buio tragico e ossessionante scendeva su questi orrori sin dalle prime ombre della sera, interrotto ogni tanto da torce agitate da figure umane urlanti che prelevavano uomini al lavoro; poi tornava un cupo silenzio di morte interrotto da grida di dolore, da gemiti, da invocazioni pronunciate nelle più diverse lingue, da preghiere elevate al cielo ad alta voce da qualche cappellano. Uomini furono visti diventare, per fame, feroci come lupi.

Alle prime distribuzioni di cibo, come colti da improvvisa follia, spettri umani si levavano e si precipitavano urlando, schiacciandosi, uccidendosi, rovesciando a terra ogni cosa, buttandosi al suolo per succhiare il fango impastato col cibo sparso.

Guardiani armati di spranghe di ferro dovevano fare scorta al pane per difenderlo da branchi di uomini in agguato che si avventavano per impossessarsene. Speculatori, in cambio del pane rubato, raccoglievano oggetti d’oro e falsi medici vendevano false polverine contro la diarrea in cambio di anelli ed altri preziosi.

Al centro del cortile si apriva un pozzo profondo. Là dentro, unendo cinghie di pantaloni e stracci di abiti, si calavano barattoli per attingere l’acqua. Gli assetati facevano ressa attorno al pozzo e nel tumulto qualcuno cadeva dentro e vi annegava. Con una pertica si spostavano i cadaveri e si continuava ad attingere.

Poi cominciò a profilarsi e ad estendersi una aberrazione ancora più mostruosa: la necrofagia; ma neppure chi si nutriva di quel macabro cibo si salvava dalla dissenteria e dalla morte. Pareva che l’umanità avesse fatto d’un tratto un passo all’indietro verso i primordi: civiltà, principi morali, religiosi, sentimenti di carità e di fratellanza sembrava fossero scomparsi per lasciare posto alla brutale violenza di un riaffiorare primordiale spirito di conservazione.

Quando tutti ebbero la sensazione di essere condannati dai sovietici a una crudele agonia, fu presa una risoluzione estrema. Il colonnello degli Alpini Scrimin[7] ebbe l’incarico di chiedere al comando russo un pietoso intervento: la fucilazione per tutti. I sovietici trovarono inopportuna la richiesta e consigliarono di attendere […]».[8] 

Questa era la situazione dei campi di prigionia in Russia. In quel conteso aberrante, il medico Reginato si prodigava senza riserve, amputando arti con un temperino da necessaire o con una comune sega, utilizzando come anestetico la neve o la stessa cancrena. I suoi meriti però andavano anche oltre: si spendeva in un continuo, esemplare trasporto di umanità, anzi di carità, nel senso evangelico del termine, che vuole sia elargito amore verso il prossimo, amore non come sensazione, ma come atto di volontà che, a Reginato, faceva vedere – in quei derelitti Soldati di ogni nazionalità, in quei corpi persino repellenti – dei fratelli, dei figli di Dio, così li definiva, così li sentiva. Li assisteva, li ascoltava, li consolava e per tutti aveva un sorriso che era luce in quelle tenebre. L’eroe Reginato è riuscito in questo, anche in momenti in cui comprimeva la sua commozione al punto di impedirgli di pronunciare parola: parlavano i suoi occhi e il suo sorriso, la sua mano carezzevole su quei corpi disfatti, finiti. Così lo sguardo di quei poveri Soldati, ridotti a larve umane si spegneva, avendo come ultima percezione la luce di quegli occhi e la dolcezza di quel sorriso.

La strage dei prigionieri si attenuò solo dopo il maggio 1943: in quei 5 mesi la maggior parte erano ormai deceduti. I sopravvissuti, ridotti a larve umane, vennero adibiti a lavori pesanti e dovettero anche sopportare un’accanita, proterva propaganda intesa a convertirli alla ideologia di quel regime. A questa imposizione si ribellò Reginato che, con alcuni altri Ufficiali, non accettò prevaricazioni e offese, rivendicando le sue convinzioni e la sua dignità di Soldato. Alle intimidazioni seguirono, punizioni, privazioni, sevizie e continui trasferimenti sino a sfociare, negli anni 1950, in un processo basato su accuse false ed infamanti, concluso con la condanna a venti anni di lavori forzati.  Il tempo, intanto, passava e dagli altri stati belligeranti, che avevano catturato Soldati italiani, i prigionieri erano rientrati in patria nella percentuale del 95%, mentre di quelli della Russia non si sapeva nulla, sino a che, grazie alle pressioni internazionali, i superstiti cominciarono a tornare a piccoli gruppi, a scaglioni, in tempi diversi, anche a distanza di anni. Dei Soldati italiani, su 70 mila catturati durante la ritirata, ne tornarono diecimila, molti fiaccati nel fisico, tutti nell’anima. Restavano gli irriducibili, un gruppo di 28 e, tra questi Reginato, che furono rimpatriati 11 anni dopo l’armistizio del 1943, 9 anni dopo la fine della guerra e, per Reginato, 12 anni dalla cattura. Era il 13 febbraio 1954.

Quelle parole, dette con tanta schiva umiltà e tanta tensione morale, rivelarono che quell’Uomo, divenuto leggenda, possedeva in modo eccelso, al di là dell’etica e dell’arte medica, il requisito indispensabile per chi avesse responsabilità di uomini in armi: l’amore per i propri Soldati che vuol dire rispettarli, capirli, aiutarli e proteggerli. Questo tanto più le circostanze siano critiche e disperate.

Nel 2020 è stato insignito della onorificenza conferita dalla città di Treviso il Totila d’Oro.[9]

Il suo valore ha ricevuto ampi riconoscimenti anche all’Estero:

La Croce di 1a Classe dell’Ordine al Merito della Repubblica Federale di Germania:

«Il Dott. Reginato ha curato, quale medico, i prigionieri di guerra nell’Ospedale Centrale dei campi di concentramento di Kiev.

Specialista in dermatologia, benché impedito da malattia a un occhio e da congelamento ai piedi e nonostante il grave pericolo di contagio per mancanza di mezzi di disinfezione, si prodigava con eccezionale zelo anche per i camerati tedeschi.

Superando molte difficoltà, ha provveduto a far giungere dalla Patria medicinali per gli ammalati, altri medicinali necessari seppe pretenderli e procurarli dai russi nonostante resistenze e minacce.

Di propria iniziativa fece costruire da tecnici esperti, compagni di prigionia, apparecchi sanitari di grande utilità.

In molti casi riuscì a impedire o a differire le dimissioni dall’ospedale, ordinate dai russi, di ammalati ancora bisognosi di cure, benché ciò lo esponesse a rappresaglie.

Con la sua arte di medico e con personale abnegazione salvò la vita a molti prigionieri tedeschi. Per il suo contegno cristiano e anticomunista fu, più volte, punito.

I doni che riceveva li condivideva anche con i camerati tedeschi. La sua forza d’animo, la sua serenità, le sue parole di conforto diedero a molti la forza di guarire e di resistere». 3 gennaio 1957.[10]

La Croce di Cavaliere dell’Ordine della Stella di Romania:

«Per gli atti di devozione e umanitarismo compiuti durante la II Guerra Mondiale, salvando la vita e alleviando le sofferenze dei militari romeni caduti prigionieri nell’Unione Sovietica». 12 dicembre 2001. [11]

La Società di Medicina e Farmacia Militare della Germania Federale e degli Ufficiali Medici gli ha conferito il 1° luglio 1977 la Medaglia Paul Shùrmann.[12]

La Società di Medicina e Farmacia Militare dell’Austria lo ha nominato il 16 maggio 1981 “Socio d’Onore”.[13]

L’Unione degli Ufficiali della riserva dell’Esercito tedesco gli ha conferito il 26 agosto 1979 “l’insegna d’onore in oro”. [14]

Il 7 marzo prossimo, in Roma, all’eroico medico militare sarà solennemente intitolato l’edificio che ospita l’Ispettorato Generale della Sanità Militare, all’interno del complesso ospedaliero militare di “Villa Fonseca” in Roma.

 

 

Vincenzo Gaglione

[1] https://www.quirinale.it/onorificenze/insigniti/13601.

[2] Decreto Presidenziale 27 marzo 1954. Registrato alla Corte dei Conti il 9 aprile 1954 -Esercito- Registro n. 14, Foglio 225. Dispensa 21a, p. 1709. Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 119 in data 25 maggio 1954. In commutazione di Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita con Decreto Presidenziale 5 agosto 1951. Registrato alla Corte dei Conti il 4 ottobre 1951 –Esercito- Registro n. 42, Foglio 140. B.U. 1951, p. 806.

[3] Enrico Reginato rientrò nella sua Treviso il 13 febbraio 1954.

[4] Il Diploma di laurea reca la data 14 luglio 1938.

[5] Gruppo Medaglie d’Oro al Valore Militare, Le Medaglie d’Oro al Valore Militare, Volume secondo (1942-1959), Tipografia Regionale, 1965, Roma, p. 732.

[6] “Operazione Piccolo Saturno”.

[7] Colonnello Luigi Scrimin, Comandante 2° Reggimento Alpini della 4° Divisione Alpina Cuneense, Era tra i catturati all’alba del 28 gennaio 1943, Mentre il reparto in ritirata stava raggiungendo la località di Roswanskoie, vicino a Valuiki, fu definitivamente circondato dalle truppe sovietiche del 6º Corpo di Cavalleria. I superstiti della divisione furono quindi costretti alla resa insieme ai resti della Julia. Morirà durante la prigionia in Russia nel 1943 nel campo di prigionia di Oranki.

[8] Enrico Reginato, 12 anni di prigionia nell’URSS, Prima edizione della Garzanti, 1955, Milano, passim.

[9] https://www.trevisotoday.it/attualita/premiazione-totila-oro-2020.html. Totila d’Oro è il nome ufficiale della onorificenza cittadina più prestigiosa conferita dal comune di Treviso. Il nome del premio si riferisce a Totila Re degli Ostrogoti, che nacque a Treviso intorno all’anno 516.

[10] D.P.R. 8 febbraio 1958. Archivio Storico del Gruppo Medaglie d’Oro al Valore Militare d’Italia.

[11] Post mortem. Decreto n. 1061, Brevetto SR/nr.Cav.244. Ivi.

[12] Ivi.

[13] Ivi.

[14] Ivi.