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Una delle riflessioni più tipiche e famose sull’Arte Militare – e che ho già richiamato in un precedente articolo – è quella relativa all’antico condottiero stupido e a quello bravo.

Nei tempi antichi, quando le schiere si fronteggiavano in campo aperto, le battaglie duravano poche ore e le tattiche disponibili erano poche, si diceva che un comandante stupido ordinava di attaccare frontalmente, mentre uno abile attaccava sui fianchi per cercare di circondare il nemico; per intenderci: come Annibale a Canne.

Questo però implicava che due comandanti abili si scontravano entrambi sulle ali uno dell’altro…

Poi c’era il comandante geniale che – sapendo che l’avversario capace si aspettava un attacco sui fianchi – attaccava a sorpresa frontalmente.

Il paradosso a questo punto era che il piano del comandante stupido e di quello geniale finivano con il coincidere nei fatti se non nelle premesse.

 

Naturalmente nella realtà le cose sono sempre molto più complesse di così, ma la morale della storia – oltre che ricordarci che le opzioni possibili sul campo di battaglia sono in realtà limitate – è che per giudicare una strategia non basta osservarne gli sviluppi ma occorre comprenderne le motivazioni.

 

Una versione aggiornata di questa riflessione, maturata però nei tempi più recenti in cui le guerre si cominciavano già a combattere lungo fronti continui, poneva l’attenzione sul DOVE colpire l’avversario: sul punto apparentemente più debole del suo schieramento, oppure su quello più forte?

Il comandante stupido ovviamente schierava le forze migliori di fronte al nemico più forte e lo attaccava lì; quello bravo cercava il punto debole per praticare in quel punto lo sfondamento… E quello geniale cercava di sorprendere il nemico bravo attaccandolo dove questo era più forte, proprio nella speranza di coglierlo di sorpresa…

Di nuovo, il piano del comandante stupido e di quello geniale sembrano uguali in maniera imbarazzante.

 

Sembra una storiella, ma questa situazione si è verificata realmente durante la I Guerra Mondiale, soprattutto sul fronte francese, e in misura minore anche su quello italiano.

Anche allora in realtà le cose erano più complesse di così, e oltre alle considerazioni sulla robustezza delle difese avversarie sussisteva anche il vecchio principio napoleonico secondo cui sconfiggere l’elemento più forte del nemico equivaleva a sconfiggere il nemico nella sua interezza (ricordiamo che Waterloo dista molto poco dalla Somme, sia nello spazio che nel tempo: Napoleone era ancora un’esperienza recente ai tempi della Grande Guerra).

Di qui la storia della “Logica di Falkenhayn”.

 

Erich von Falkenhayn era il Capo di Stato Maggiore tedesco in carica dopo la fine della fase cosiddetta “di movimento” della I Guerra mondiale. La grande offensiva che avrebbe dovuto travolgere la Francia all’inizio della guerra si era esaurita nel fango, e le successive controffensive alleate si erano spentea loro volta; il fronte si era stabilizzato e i tedeschi avevano riaccumulato un potenziale sufficiente a riprendere l’iniziativa… Occorreva però scegliere DOVE sferrare il nuovo attacco.

Le possibilità erano diverse: un attacco nelle Fiandre per separare gli inglesi e i belgi dai francesi e raggiungere la Manica; sfondare al centro per distruggere il grosso dell’esercito francese; supportare massicciamente un attacco austriaco contro l’Italia nel Trentino; sferrare un attacco preventivo contro la Romania ancora neutrale, oppure attaccare la Russia, che si trovava in quel momento in posizione di vantaggio.

Convinto della superiorità qualitativa del suo esercito, Falkenhayn scelse di attaccare il nemico nel punto più forte, esprimendo la convinzione che così facendo, oltre a sorprendere gli avversari, in caso di successo avrebbe indotto i più deboli e meno risoluti fra di essi a recedere dal conflitto e accettare una pace separata.

Fu così che i tedeschi attaccarono a Verdun.

 

Gli appassionati di storia militare mi perdoneranno l’eccessiva semplificazione della genesi del più sanguinoso episodio della Grande Guerra, ma qui mi preme mettere in luce le motivazioni di Falkenhayn. Anche i suoi detrattori ammettono che si trattasse di un eccellente professionista: se il suo piano avesse funzionato sarebbe passato alla storia come un genio, e in realtà avrebbe anche potuto funzionare…

Ma così non fu.

Le perdite tedesche e francesi continuarono a montare per mesi in quella che all’epoca fu definita una “macina” (oggi si direbbe un “tritacarne”): una guerra d’attrito fatta di assalti e contro-assalti alle stesse trincee e agli stessi bunker nel tentativo di logorare le riserve avversarie, e che si concluse sostanzialmente in un nulla di fatto.

Il calcolo di Falkenhayn era stato che la superiorità qualitativa delle sue truppe e la disponibilità di rincalzi in misura superiore rispetto ai francesi gli avrebbero permesso di logorare il nemico e di farlo cedere prima che l’offensiva culminasse; ci arrivò vicino, ma i francesi ressero e lo sforzo tedesco culminò prima che le difese potessero essere infrante. L’esercito francese ne uscì stremato, e non fu in grado di operare offensivamente per molti mesi; ma le perdite tedesche non poterono mai essere compensate, e da quel momento la Germania si trovò a combattere quasi sempre in condizioni di inferiorità numerica: cosa alla quale non era abituata.

 

Se tutto questo vi ricorda qualcosa, è perché le analogie fra il conflitto in Ucraina e la Grande Guerra sul fronte francese sono davvero impressionanti, e questa è una di esse.

Bakhmut è la Verdun del 2022: poco più di cento anni più tardi, la storia ha riproposto lo stesso dilemma ad un esercito in difficoltà ma ancora convinto della sua superiorità qualitativa a dispetto dell’evidenza del campo di battaglia. Un esercito che mantiene la superiorità in quello che percepisce come il punto più importante del fronte (il Donbas centrale) e che sa di dover “spezzare le reni” al nemico per poter ottenere un accodo di pace a condizioni favorevoli dopo che il tentativo di “guerra lampo” è fallito.

Nel 1916 i tedeschi riuscirono anche a conquistare la principale fortificazione francese del settore – il Forte Douaumont – sia pure per poi riperderlo poco dopo, ma sostanzialmente riuscirono ad avanzare per diversi chilometri, e mantennero il terreno conquistato fin quasi alla fine della guerra; ma nel terreno conquistato a così caro prezzo non c’era assolutamente niente che valesse il sangue versato. Al contrario, le perdite subite risultarono alla lunga irreparabili, e pur disponendo la Germania di maggiori complessive riserve umane rispetto alla Francia, l’attrito reciproco risultò più deleterio per i tedeschi che non per i loro avversari.

 

Questo perché il terreno non era il vero obiettivo dell’offensiva: Falkenhayn non operava “orientato al terreno”, cioè proteso a catturare un obiettivo vitale sul campo da cui acquisire una posizione di vantaggio per proseguire la campagna con successo; lui operava “orientato al nemico”, e mirava essenzialmente ad incidere sulla curva del Momentum per fletterla a proprio vantaggio e ridurre il potenziale militare avversario rispetto al proprio.

Fallì; il potenziale tedesco si ridusse tanto quanto quello francese, ma a causa degli impegni sugli altri fronti la Germania non fu in grado di ripianare le perdite e recuperare il proprio potenziale più in fretta dei suoi nemici: da Verdun in avanti il Momentum alleato continuò inesorabilmente a crescere fino a costringere la Germania alla resa.

 

A differenza di Falkenhayn, Gerasimov subisce anche forti pressioni politiche, e non credo che la sua pressione su Bakhmut sia frutto di calcoli simili a quelli del suo collega tedesco del secolo scorso: si tratta piuttosto della sommatoria delle direttive politiche di Putin, delle ambizioni di Prigozhin e della visione di Surovikin, che insieme portano all’ossessiva pressione su un obiettivo sostanzialmente inutile ove però si consumano reciprocamente enormi risorse di potenziale militare.

Gerasimov sa di non poter ottenere una vittoria militare in Ucraina: può solo sperare di imporre un armistizio a condizioni relativamente vantaggiose, che lascino quanto più territorio ucraino possibile in mano russa, e può riuscirci solo logorando le forze ucraine al punto di costringerle a rinunciare ai loro propositi controffensivi.

Per questo Surovikin si sta disponendo sulla difensiva un po’ dovunque, confidando nell’inverno per riacquisire attraverso la mobilitazione e la riconversione industriale il potenziale perduto; nel frattempo, per logorare il potenziale avversario in crescita allarmante, impone il “tritacarne” di Bakhmut, dove impiega i mercenari di Wagner, che dal suo punto di vista sono materiale umano spendibile…

 

Militarmente, vista così, la cosa ha senso: nel Donbas centrale, non è Bakhmut l’obiettivo dell’offensiva russa; l’obiettivo è il potenziale militare ucraino.

Se poi per logorare il nemico si logora anche la forza del Gruppo Wagner, questo per Gerasimov e Surovikin può anche essere un vantaggio ulteriore. Forse anche per l’orso Vladimiro, che comincia a guardare con sospetto alle manovre del suo sodale Prigozhin.

Ma… Le perdite ucraine sono tali da giustificare quelle russe?

 

Orio Giorgio Stirpe