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In Italia nel 2022, hanno lasciato il lavoro 1,6 milioni di persone, 300mila in più dell’anno precedente. Si può dire che è arrivato il fenomeno Great Resignation anche in Italia? Il termine, inventato da uno psicologo americano, descrive il fenomeno osservato dopo la prima ondata di Covid-19 negli Stati Uniti.

La teoria è che centinaia di migliaia di persone, passate tramite l’esperienza dei lockdown, hanno ripensato il loro modello di lavoro, la sua qualità e in relativo ruolo nelle vite di ciascuno, risultando più propense ad abbandonare la loro occupazione, se ritenuta non soddisfacente.

Inoltre quattro lavoratrici/lavoratori su dieci hanno firmato le dimissioni senza avere tra le mani un’altra offerta. Praticamente un salto nel buio. Ma quali sono le ragioni che spingono così tante persone a una scelta cosi audace o imprudente, anche nel corso dei primi mesi del 2022?

Dal punto di vista delle aziende questa situazione si traduce in aumento dell’incidenza del turn-over, particolarmente dannosa in questo momento segnato dalla trasformazione digitale e dell’irrequietezza dell’economia. Sempre secondo la School of Management del Politecnico di Milano il 96% delle aziende ha difficoltà ad attrarre le nuove risorse indispensabili ad aggiornare il proprio know-how alle esigenze del settore.

Molte dimissioni sono infatti legate alla difficoltà di conciliare lavoro e vita familiare e rappresentano una vera e propria rinuncia all’occupazione. Un fenomeno che riguarda in misura maggiore la popolazione femminile. In Italia, secondo un rapporto dell’Ispettorato del Lavoro, le dimissioni di dipendenti con figli fino a tre anni hanno interessato per il 77,4% dei casi le donne e solo per il 22,6% gli uomini.

Le persone fuggono dai loro posti di lavoro perché ricercano offerte di lavoro che consentano loro di svolgere l’attività a distanza, lontano dagli uffici delle grandi aree urbane dove il costo della vita è troppo alto, con maggiore flessibilità sugli orari e la possibilità di autogestire la propria quotidianità lavorativa.

Il dato più critico è che per l’83% delle intervistate/degli intervistati le motivazioni vanno ricercate soprattutto nel malessere emotivo, dato dall’assenza di riconoscimenti di merito, e dal non sentirsi allineati ai valori dell’azienda, solo il 17% del campione ha dichiarato di sentirsi inclusa e valorizzata all’interno dell’organizzazione per cui lavora.

Secondo i dati Istat e Eurostat la maggior parte delle lavoratrici/dei lavoratori part-time in Italia e nella UE sceglie questa formula perché obbligata, in quanto l’azienda per cui lavora non offre un contratto a tempo pieno.

Per la precisione il 65,2% delle/dei dipendenti a tempo parziale in Italia vorrebbe lavorare di più, se guardiamo la fascia di età di chi entra nel mondo del lavoro, dai 20 ai 29 anni, il dato balza al 76,2%, fenomeno che va sotto il nome di part-time involontario e per il quale l’Italia è prima in Europa come mostra l’infografica che segue.

Tutto questo fuggi fuggi dal mondo del lavoro lo si può addebitare alla perdita di centralità del concetto di lavoro, che ha a che fare con “l’esplodere dell’individualismo e della disgregazione dei legami sociali”, ad incidere in maniera determinante è la qualità dell’occupazione in media talmente bassa da fargli perdere senso, sia dal punto di vista del reddito che della qualità  del lavoro.

A mancare poi, soprattutto per i giovani, sarebbe la prospettiva di crescita professionale e retributiva.

Il fenomeno, però, riguarderebbe in Italia una minoranza di persone, non stritolate dall’inflazione, in cui una grossa fetta è costituita da professionisti altamente qualificati. Sono coloro che cercano di cogliere le opportunità che la ripresa dell’occupazione, dopo il biennio con le fasi più dure del Covid, può offrire.

Per bloccare il fenomeno servirebbe aumentare i salari rinnovando i contratti pubblici e tagliando ancora il cuneo fiscale, ma anche ridurre l’orario di lavoro a parità di stipendio.

Alfredo Magnifico