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Non solo il Lazio, l’intera Italia è disseminata da piccoli borghi che solo 40/50 anni fa erano pieni di vita, bastava girare tra gli stretti vicoli dei centri storici per ascoltare di casa in casa le voci di chi le abitava, i profumi del cucinato, vedere le persone più anziane sedute davanti gli usci parlottare tra loro, erano segnali di vita quotidiana che si accendevano ancora con più vigore nei mesi estivi quando i pochi trasferiti nelle grandi città tornavano richiamati dai parenti rimasti, dai ritmi di vita diversi da quelli formalmente assunti in città e spesso imposti.

Erano i tempi in cui, soprattutto nell’appennino la terra si lavorava con l’aratro trainato da buoi, ci si spostava di terreno in terreno in Asino, le “bestie” erano la ricchezza di una famiglia e buona parte dei raccolti passava per la condivisione della fatica proprio tra Bestia e Persona. Ma erano anche i tempi in cui la motorizzazione del Paese iniziava a diffondersi e dagli anni 60 al 1970 sempre più cittadini tornavano al Paese in 600, 500 o 850 fiat sempre meno rientravano con la Postale, una corriera che ho preso spesso anche io per andare o tornare da Pescosolido, il borgo dei miei nonni materni, un’avventura di viaggio che imponeva almeno una sosta a Colleferro davanti al Bar Marini, era un viaggio di ore su bus Lancia interamente colorato di un azzurro scuro con il motore chiuso in un baulle interno all’abitacolo, non mancava il rumore e mancavano sicuramente gli ammortizzatori.

Ma non è di questo che voglio parlare, voglio parlare di intere generazioni attratte dal lavoro in città o in fabbrica, sicuramente meno faticosi del lavorare la terra e più remunerativi. Voglio parlare dell’abbandono costante di popolazione giovane a cui, negli anni, è seguita la chiusura degli esercizi commerciali presenti nei borghi, posti di lavoro anche quelli, mai curati dall’ottusa politica che vede i numeri e dimentica le persone.

Torna in mente, ovviamente ciò che conosco, negli anni 60 a Pescosolido erano attive ben 5 cantine, 4 negozi di generi alimentari, un tabacchi (pensate che le sigarette, ma anche la pasta, si vendevano sfuse), 2 bar, una macelleria, un negozio di generi vari, il barbiere, l’ufficio postale, la scuola elementare, l’asilo, oltre una fattoria con la latteria dove si andava a prendere il latte appena munto da far bollire prima di berlo.

Sicuramente tante famiglie che vivevano dei loro commerci e dei servizi che andavano ad aggiungersi a quelle che lavoravano i campi. Un tessuto sociale vivo che si confrontava negli uffici comunali, nelle sezioni dei partiti, in piazza, in chiesa; forse a scartamento ridotto confrontato alle grandi città, ma dove nessuno passa inosservato e nessuno viene lasciato solo, ben diverso da quello che può accadere in un condominio dove a stento ci si conosce stando sullo stesso pianerottolo.

Era, ed è, l’Italia degli oltre 5000 piccoli comuni dove oggi spopolamento ed assenza di servizi hanno reso questi posti parcheggio per anziani soli, abitati dagli spettri di vita che raccontano muro per muro, rovina per rovina, dormitori di lusso per chi, lavorando fuori a breve distanza, ha potuto costruirsi una nuova casa fuori dal centro storico, di fatto abbandonando le vecchie case di famiglia.

Dopo decenni di oblio ecco che in molti di questi luoghi torna uno spiraglio di vita legato a piccoli imprenditori locali che riscoprendo vecchie colture sfornano nuove produzioni d’eccellenza in agroalimentare, vini ed olii di ottima qualità che hanno solo bisogno di sfondare in nuovi mercati, giovani che coltivano cultura, storia e tradizione. Piccoli segnali di rinascita dei borghi semiabbandonati, ma segno di un orgoglio rinascente non più dai padri ma dai figli, un gran bel segnale perché il recupero dei nostri luoghi dell’infanzia può significare tornare a limitare i danni da dissesto idrogeologico e anche, soprattutto, far ripartire, con la rigenerazione urbana, il più grande cantiere d’Italia, il turismo, l’occupazione a km 0.

Ed ecco che quando la politica, quella con la p minuscola, non si muove e lascia tracce d’indecenza per decenni, sono loro, i giovani rimasti, orgogliosi della loro appartenenza, che se ne sostituiscono con le azioni. Ma il volontariato e l’intraprendenza non possono bastare, non vanno lasciati soli, serve una Politica del territorio, servono investimenti e progetti che aiutino questi giovani a far rifiorire i nostri borghi, unici al mondo per bellezza, per storia, per tradizioni, per cultura.

 

L’editoriale di Fabrizio Premuti