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I minions non si devono preoccupare: la battaglia di Severodonetsk continua ad essere vinta tutti i giorni. Ogni giorno una bandiera bianco-rosso-blu, oppure semplicemente rossa, viene issata su un nuovo edificio e l’annuncio della conquista viene debitamente annunciato e rilanciato con soddisfazione. Un po’ come quando i tifosi di calcio frustrati si rivedono tutti i giorni il film eroico di Italia-Germania 4-3.

 

Anche Mariupol è stata “conquistata” dozzine di volte, quindi non c’è niente di strano. Oltre ai minions, anche gli entusiasti della “guerra di movimento” e i giornalisti frustrati dalla mancanza di notizie significative ci mettono del loro, cercando di vedere novità significative nella nebbia di uno stallo esasperante che non consente di porre fine ad un conflitto che nessuno vuole, ma che nessuno riesce a fermare.

 

Oggi però la notizia significativa c’è, e dovrebbe riempirci di orgoglio, e anche di speranza.

Draghi, Macron e Scholz (in rigoroso ordine alfabetico) sono a Kyiv, e ci sono andati insieme.

Naturalmente non c’è più niente di eroico nel recarsi nella capitale ucraina in questo momento, come invece lo fu il viaggio di Roberta Metsola quando i russi stavano ancora investendo la città: adesso gli invasori sono lontani, nel Donbass. Molti altri personaggi importanti sono già stati a Kyiv nel frattempo, e le loro visite hanno gradualmente perso di significato diventando poco più che perdite di tempo per Zelensky, limitandosi a fornire una conferma simbolica della simpatia del mondo alla causa ucraina.

Ma la visita combinata dei tre leader di Francia, Germania e Italia (sempre in ordine alfabetico) è molto diversa dalle altre, anche da quella pur significativa di Ursula von der Leyen a nome dell’Unione Europea: perché loro tre – insieme – non “rappresentano” istituzionalmente l’Europa; loro tre “sono” l’Europa.

Sono i capi di governo dei tre Paesi di gran lunga più forti dell’Unione, ciascuno dei quali con un PIL che sopravanza di molto quello della stessa Russia, e insieme detengono il potere politico di indirizzare l’intera EU. Con loro, di fatto, si è recata a Kyiv l’Europa.

 

Non che ci si aspettino risultati eclatanti da questa visita: difficilmente qualcosa che i tre leader possono dire o fare cambierà significativamente la situazione sul campo. Ma è la loro visita in sé ad essere significativa: perché è la prima volta che si recano insieme in visita di Stato presso una Nazione partner con il preciso intento di rappresentare l’Europa. È la prima volta che il potere politico reale del continente si reca all’estero congiuntamente con un obiettivo diplomatico preciso e unitario.

 

L’Europa che parla con una voce sola esponendosi in prima persona nell’ambito di un conflitto convenzionale ad alta intensità di rilevanza mondiale e di cui è parte – sia pure non combattente per ragioni di ordine nucleare – è una novità assoluta.

Fra NATO e EU, l’unità del continente non è mai stata più completa nell’affrontare un conflitto. Storicamente, tutte le guerre significative hanno sempre visto potenze europee contrapposte fra loro, ciascuna con i suoi alleati extra-continentali; questa volta invece l’intera Europa sta da una parte sola, dall’Islanda a Cipro, e dal Portogallo alla Finlandia, senza lasciare indietro nemmeno la Svizzera.

E’ dal tempo di Carlo Magno che le tre grandi Nazioni al cuore dell’Europa non si ponevano compatte nei confronti di un conflitto armato: tutte le guerre da allora fino a oggi hanno avuto al loro centro un qualche tipo di scontro fra di loro, a parte forse la Rivolta dei Boxer a Pechino nel 1900.

 

L’unità politica dell’Europa è un sogno inseguito ormai da settant’anni; abbiamo l’unione economica, quella culturale, perfino quella monetaria. Abbiamo fortissimi legami culturali, trattati diplomatici e militari. Ma per l’unione politica non bastano: la storia insegna che occorre anche una causa comune. Una causa che venga messa alla prova da un’azione solidale nei confronti di una minaccia grave, comunemente sentita come tale dai governi e dalla maggior parte delle relative popolazioni.

Oggi la causa comune esiste, e l’unità di intenti espressa dai Parlamenti democraticamente eletti di tutta Europa non ha precedenti nella storia.

 

In prospettiva storica, forse un giorno dovremo esprimere gratitudine a Vladimir Putin: nessuno prima di lui era riuscito ad unirci in questo modo. Perché è facile essere uniti per convenienza; spesso l’opportunità politica spinge a strette di mano poco sentite e le dichiarazioni di principio possono essere vuote.

Ma l’unione creata nel pericolo è differente: genera legami sinceri, destinati a durare. Vedere i carri armati di una dittatura dilagare nel territorio di una giovane democrazia puntando verso i nostri stessi confini europei ha scosso le coscienze non solo della gente comune, ma anche delle personalità politiche; oggi, a Kyiv, i tre leader hanno sentito suonare le sirene dell’allarme aereo sulle loro stesse teste mentre parlavano con il loro omologo Zelensky.

Sì, credo che dovremo ringraziare l’orso Vladimiro per questo.

Perché grazie a lui, non eravamo mai stati così uniti, dalle Azzorre fino a Severodonetsk.

Non eravamo mai stati così Europei.

 

Orio Giorgio Stirpe