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Fuoco e fiamme in un piccolo settore del fronte del Donbass (intorno a Severodonetsk), e quasi silenzio su tutto il resto della linea di contatto. Eppure, qualcosa si muove.

Non più sul terreno, dove i cingoli dei carri armati si stanno bloccando uno dopo l’altro e i soldati sono occupati a scavare trincee: ma nel segreto delle cancellerie e nelle segrete del Cremlino.

 

Cominciamo dalle cancellerie, cioè dai luoghi dove si svolge la diplomazia seria. Perché le vere trattative, quelle capaci di risolvere i conflitti, non si svolgono alla luce del sole o sulle pagine dei quotidiani, ma nelle comunicazioni riservate fra i “galoppini” dei vari ministeri degli Esteri. Siccome io non ho nessuna visibilità su tali comunicazioni – e dubito qualcuno che combatte come me su Facebook ne abbia – non posso sapere esattamente cosa stia succedendo; però vedo dei segni che in effetti contatti che sembravano sopiti siano ripresi.

Un primo segnale sono stati i contatti ripresi per la prima volta dall’inizio della guerra fra i militari russi e americani, al massimo livello: fra ministri della Difesa e fra capi di Stato Maggiore. A questo contatto sta seguendo la riapertura a Kyiv dell’ambasciata americana, con tanto di contingente di marines a protezione; non è come per la nostra ambasciata, che si limita ad avere qualche carabiniere alla porta: nel caso americano si tratta di un’intera compagnia d’assalto… E i russi non protestano affatto per questo.

Il secondo segnale è sempre di origine americana: il messaggio di fermezza di Biden su Taiwan, alla vigilia della riunione del “Quad”: l’alleanza ormai formale fra USA, Giappone, India e Australia in funzione anti-cinese. Segno incontrovertibile di come l’America stia distogliendo parte della sua attenzione dall’Europa per tornare a concentrarsi dove le preme davvero, cioè sull’Asia. Non se lo potrebbe permettere senza qualche fiducia nel fatto che una guerra contro la Russia sia ormai altamente improbabile.

Poi c’è la tanto attesa razionalizzazione degli sforzi militari russi: l’arrembaggio confuso e scoordinato lungo fronti impossibili da gestire è terminato, e l’esausto esercito russo sta finalmente attaccando in modo ragionevole concentrandosi su un punto ben preciso con tutto ciò che ha ancora a disposizione, rinunciando a fantasiosi piani di sbarco a Odesa o di offensive su Dnipro. L’enfasi è posta non più sulla “liberazione del Donbass”, ma sulla “liberazione del Luhansk”, per il completamento della quale manca solo Severodonetsk e una trentina scarsa di chilometri di territorio.

Infine, forse più importante di tutti, Zelensky ha lasciato cadere quasi casualmente una semplice considerazione: riconquistare la Crimea con la forza, almeno adesso, costerebbe “centinaia di migliaia di morti” da entrambe le parti. Si appella all’Occidente perché “fermi la Russia”, ma non si agita più di tanto per l’intenzione russa di “processare” i soldati ucraini membri del reggimento Azov catturati a Mariupol, che pure costituisce una plateale violazione delle convenzioni di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra… Del resto la sua vice-primo ministro aveva ribadito più volte come l’accordo per la resa dell’Azovstal “non sarebbe piaciuto a molti”.

 

Sembrerebbe dunque che i principali protagonisti del conflitto stiano effettivamente valutando l’impiego di strumenti diversi dai soli carri armati per risolvere la situazione che del resto sul campo ormai è quasi del tutto bloccata. Lo stesso Erdogan sembra aver rinunciato da un po’ al suo protagonismo, teso ad acquisire visibilità internazionale e crediti pubblici per ospitare la sede di un improbabile negoziato da lui stesso sponsorizzato: come se sapesse che la palla ormai è ad altri.

La conferma di questo potrebbe venire da un riaccendersi del conflitto in Siria, dove in assenza di un ruolo di pacificatore in Ucraina la Turchia ha tutto l’interesse a riempire il vuoto lasciato dal ritiro delle forze russe e a concludere un contenzioso decennale con il pariah internazionale Assad.

 

Che l’accordo per una mutua cessazione delle ostilità guerreggiate preveda o meno da parte di Zelensky il sacrificio delle macerie di Severodonetsk non è molto rilevante: quello che conta è che sembra che russi e ucraini abbiano accettato la realtà di come gli sforzi militari di entrambi ormai abbiano condotto ad uno stallo ed occorra cercare altre soluzioni, probabilmente insoddisfacenti per entrambi.

Kyiv ha capito che l’aiuto occidentale non sarà senza fondo e le verrà fornito solo quanto occorre per fermare l’invasione, ma non per lanciare un contrattacco totale, e in questo quadro si colloca il rifiuto americano a cedere gli MLRS… Almeno in questa fase.

Mosca a sua volta ha recepito il messaggio occidentale: se non si ferma, gli aiuti occidentali riprenderanno, e a lungo termine la Russia si ritroverà a subire un’umiliante controffensiva ucraina fino al suo territorio, e magari oltre.

Se così è, le armi potrebbero presto tacere lungo un fronte più o meno stabilizzato e le trattative per un cessate-il-fuoco formale potrebbero avere inizio. In questo caso assumerebbe rilevanza l’affermazione del viceministro degli Esteri russo secondo cui Mosca starebbe analizzando seriamente il piano di pace consegnato dall’Italia alle nazioni Unite.

 

Quanto sopra delineato, se confermato, potrebbe dare adito ad una certa speranza. Però lascia un forte dubbio: cosa ha condotto la posizione russa ad un tale ammorbidimento?

Perché di ammorbidimento si tratta: il Donbass è tutt’altro che “liberato”, il governo ucraino è più forte che mai e l’esercito russo non ha raggiunto neppure uno degli obiettivi annunciati all’inizio dell’”Operazione Militare Speciale”. Cessare le ostilità adesso costituirebbe un’umiliazione quasi intollerabile per Putin, e incrinerebbe la solidità del regime.

 

Arriviamo quindi a ciò che si muove nelle segrete del Cremlino.

Cosa sta succedendo a Mosca? Cosa è cambiato?

Non lo sappiamo. Forse Gerasimov è riuscito a convincere il resto del governo dell’impossibilità di arrivare ad un successo militare, e Putin ha dovuto piegarsi? Lo stesso autocrate si è rassegnato ad accontentarsi della “vittoria” dell’Azovstal? Oppure la sua salute si è deteriorata al punto che ora il potere reale è in mano a qualcun altro che sta cercando di salvare il salvabile?

 

In questo contesto assume forse rilevanza un’altra notizia appena giunta dall’ONU. In una rara protesta pubblica di un funzionario russo, Boris Bondarev, un diplomatico inviato alla missione russa presso le Nazioni Unite a Ginevra, ha pubblicato una dichiarazione in cui condanna l’invasione russa dell’Ucraina e critica il Ministero degli Affari Esteri russo per la complicità in ciò che ha descritto come una “guerra aggressiva” – linguaggio proibito in Russia in base alle leggi sulla censura in tempo di guerra. “La guerra aggressiva scatenata da Putin contro l’Ucraina, e di fatto contro l’intero mondo occidentale, non è solo un crimine contro il popolo ucraino, ma anche, forse, il crimine più grave contro il popolo russo, con una lettera Z in grassetto incrociata fuori tutte le speranze e le prospettive per una prospera società libera nel nostro paese”.

Il rispettato quotidiano economico russo Kommersant ha contattato Bondarev, che ha confermato l’autenticità del post.

Una simile dichiarazione nella situazione attuale costituisce non solo una rottura clamorosa con il proprio governo da parte di un diplomatico in carriera, ma anche un crimine contro le leggi vigenti nel suo Paese, ed appare sorprendente come tale diplomatico abbia deciso di correre un simile rischio proprio in questo momento.

Forse l’orso Vladimiro comincia a far meno paura a coloro che hanno visibilità sulle segrete della sua tana?

 

Orio Giorgio Stirpe